Home » Lo Spiedo tra storia e cultura

Lo Spiedo tra storia e cultura

La storia dello Spiedo nel corso dei secoli, a cura di Danilo Gasparini

Stufo di scottarsi le mani per girare la carne attorno al fuoco, l’Uomo deve aver inventato lo spiedo, forse anche prima di diventare Sapiens. Probabilmente quelle scottature avranno contribuito a renderlo Sapiens. Un semplice bastone fu l’accessorio ideale allo scopo. Cristoforo Colombo, arrivato in America, vide che gli Indios avevano ideato un sistema semplice e ingegnoso per arrostire i pesci: infilavano un bastone tra le branchie e lo piantavano per terra, un po’ obliquo, davanti al fuoco. Un sistema analogo viene usato ancor oggi dai pastori sardi per cuocere su purcheddu: ci infilano dentro un paletto e lo mettono accanto al fuoco. Ogni tanto gli cambiano posizione e l’arrosto è presto pronto. Così si sarà fatto anche al tempo in cui il Deuteronomio, il libro delle norme dettate da Dio a Mosè, prescriveva che il legno per lo spiedo fosse preso da un albero di melograno. Buona scelta: dritto, resistente, poco propenso a incendiarsi, discretamente profumato e di sapore garbo, adatto ad un arrosto.

Anche l’ etimologia del nome spiedo ci porta molto lontano, poiché rivela una matrice comune a ceppi linguistici molto diversi: spiess per i germanici, speut per i franconi, spit per i longobardi. I latini usavano invece una brutta parola, anche “indeclinabile”: veru. La loro tradizione dello spiedo sembrerebbe essere cioè diversa da quella dagli altri popoli, che, come si può constatare, accomunano il suono sp al senso di spunciare. I tedeschi dicono spitz per dire punta. I veneti, dopo le punture, sentono spizza. I longobardi chiamavano spit la lancia degli arimanni che – indifferenti alla loro noblesse guerriera – alla prima occasione buona utilizzavano per ammazzare una preda e per arrostirla. Riuscivano così ad allestire velocemente e ovunque si trovassero una cucina rapida, efficiente e appetitosa e che non aveva bisogno di pentoloni da lavare. Nello stesso modo impiegavano anche la spatha, per gli spuntini più leggeri e veloci. Gli arrosti infilati sulle spade sono rimasti nelle tradizioni popolari di Gallura e Spagna, dove questo metodo è praticato per il tipico churrasco. Lo spiedo diventa chiaramente una peculiarità dei popoli nomadi e guerrieri, versatile strumento di guerra, di caccia e di cucina. Come arma è ancora molto popolare nel ‘500: è una lancia con una punta romboidale, generalmente breve, al termine della quale viene posto un traverso ortogonalmente sulla “gorbia”. In questo modo viene evitata una penetrazione troppo profonda nelle carni, il che potrebbe comportare, nell’agitazione del combattimento, la perdita dell’arma. Questo accorgimento consente invece di dare reiterati colpi e di moltiplicare le ferite alla vittima. Particolarmente popolare era lo “Spiedo di Bologna”, usato anche per la caccia agli animali di grossa taglia, come cinghiali e orsi, nella fase finale che si concludeva con un corpo a corpo del cacciatore con la preda. Anche il veru dei latini, nel tempo, diventa arma: è il verrettone, la caratteristica freccia dei balestrieri. Questo ci fa supporre che i Romani antichi avessero usato spiedi piuttosto corti. D’altra parte i focolari che conosciamo, sia quelli di Pompei che di Ercolano, non sono generalmente adatti a sostenere spiedi di grandi dimensioni. Fra le suppellettili delle case romane sono stati ritrovati bracieri portatili per uso di cucina, muniti di supporti per spiedi, sempre di dimensioni piuttosto ridotte. Venivano utilizzati in prossimità dei triclini, dove il padrone di casa e i suoi ospiti si sdraiavano per pranzare. La cottura degli spiedini diventava così parte integrante del convivio. Il più celebre fra tutti i ricettari, quello di Apicio, raccolta di vari scritti di varie età, ma che si fa risalire al primo secolo dopo Cristo – quindi coevo all’eruzione che seppellì Ercolano – conferma queste tendenze in materia di cottura di carni, che nella maggior parte dei casi vengono utilizzate come fritti, bolliti e stufati; e gli arrosti sono preparati in tegame, al forno. “In caccabo assas…, in furno miseris”, istruisce Apicio; cioè arrostisci in pentola, metterai nel forno. A fugare ogni dubbio, il capitolo V Assaturae inizia così, con il paragrafo Assaturam:

“assam a furno simplicem salis plurimo conspersam cum melle inferes”

cioè “Arrosto: servi la carne arrostita dal forno semplicemente cosparsa di parecchio sale e miele”. Non c’è menzione di spiedo in nessun passo dell’intero capitolo e neppure v’è motivo di dubitare che il suo uso possa essere stato sottinteso. Una sola volta viene menzionata la graticola, nel caso della preparazione dei rognoni. Niente spiedi quindi, per i cuochi snob della civiltà urbana latina. Se non fosse per il poeta Marziale e dovessimo giudicare la cucina romana per l’unico ricettario che ne conosciamo, dovremmo dubitare che avessero conosciuto lo spiedo. Ma invece così Marziale, in un suo epigramma, augura ad un amico che

“Le sbarre della tua graticola ti cuociano ricurve braciole, stillanti sugo, uno schiumante cinghiale infilato nello spiedo sfrigoli.”

Questa descrizione, che solleciterebbe le energiche attenzioni di Asterix e Obélix – grandi appassionati del sanglier rôti – ci dice quindi che dovevano, in qualche modo, essere usati anche gli spiedi lunghi. Non c’è quindi da dubitare che lo spiedo abbia continuato a girare, a partire dai tempi più remoti della Bibbia. Ricordate Caino? Le sue offerte di frutta non avevano grande successo presso il Padreterno, che stimava di gran lunga più gradevoli i profumi degli arrosti d’Abele, al punto da suscitare l’invidia assassina del fratello. Ancora Mosè raccomandava quindi al suo popolo che l’agnello sacrificato e arrostito fosse “d’odor soave al Signore”. Anche Omero ci aiuta un po’ nel capire meglio il percorso di questa tradizione. Troviamo uno spiedo – quasi inutile dirlo – in un campo di guerrieri, quando gli Achei sono accampati in prossimità di Troia. Ed è nientemeno che Achille, semidio ma per niente snob, ad essere indaffarato attorno al fuoco.

“…Su l’ignee vampe concavo bronzo di gran seno ei pose e dentro vi tuffò di pecorella e di scelta capretta i lombi opimi. Con essi, il pingue e saporoso tergo di saginato porco. Intenerite così le carni, Automedonte in alto le sollevava; e, con forbito acciaro, acconciamente le incidea lo stesso divino Achille, e le infiggea né spiedi. Destava intanto un grande fuoco il figlio di Menezio, e conversi in viva bragia i crepitanti rami, e già del tutto quetata la fiamma, delle brage ei fece ardente un letto, e gli schidion vi stese; del sacro sal li asperse; e, tolte alfine dagli alari le carni abbrustolite, sul desco le posò; prese di pani un nitido canestro, e su la mensa distribuilli; ma le apposte dapi spartìa lo stesso Achille, assiso in faccia ad Ulisse, col tergo alla parete.”

Questa descrizione, che dobbiamo alla partecipe traduzione dell’abate Vincenzo Monti, ci dà parecchie informazioni: intanto che, essendo praticamente impossibile in un accampamento disporre di un luogo dove frollare le carni, per intenerirle si ricorreva alla sbollentatura in acqua. Achille non aveva letto la Bibbia, e il suo spiedo non è di legno di melograno, ma di “forbito acciaro”. Impariamo anche che le carni vengono però messe in cottura a fuoco spento, distese sopra un letto di braci, come si farebbe per una grigliata. Così facevano anche i musulmani, che nei loro trattati d’igiene alimentare e nei ricettari hanno un identico modo di operare, acquisito forse attraverso gli strettissimi rapporti culturali fra arabi e civiltà alessandrina, in Egitto, in Siria e in Persia. Il medico di Bagdad Ibn-Botlan lasciò un interessantissimo Taqwin di appunti sulle proprietà dei cibi, composto attorno alla metà dell’anno Mille. La sua opera venne tradotta nel ‘200, per uso della Scuola Medica Salernitana, ai tempi di re Manfredi di Svevia, ed è oggi nota con il titolo abbreviato in Tacuinum Sanitatis. C’è un capitolo dedicato all’ Assum in veru, cioè all’arrosto allo spiedo, detto alla latina. L’autore dice che “per lo spiedo devono essere scelte carni di galline giovani, pernici e fagiani; i carboni messi sotto per l’arrostitura non devono essere di legni cattivi”. Quindi legna scelta, utilizzata anche in questo caso dopo averla bruciata, mettendola sotto lo spiedo. Muhammad ibn al-Hasan, altro medico di Bagdad, raccomanda nel suo Libro di cucina (1226), che il cuoco scelga “legno secco, tale che non produca un fumo acre, come ad esempio il legno di ulivo, leccio e simili, e specialmente si deve evitare il legno di fico, perché sprigiona molto fumo, come tutti i legni ricchi di linfa”. Altra raccomandazione di Botlan: “Si irrori spesso l’arrosto con olio di mandorle, in modo che prenda un’umidità diversa da quella sua”. Dice che è un cibo adatto a chi ha uno stomaco caldo, pori larghi, e a coloro che fanno molto esercizio; come, appunto, i guerrieri omerici. Questo tipo di spiedo viene chiamato kardanāj, distinto dal kabāb, che è invece un Assum supra carbones fatto con piccoli pezzi di carne di agnello giovane infilati su spiedini e messi sulla gratella; è diverso dal chebab che conosciamo oggi, ma identico ai famosi rosticini degli abruzzesi. Tutto sommato, sono ben pochi i cenni allo spiedo anche nei trattati della cucina araba, sebbene molta parte di questa popolazione vivesse allo stato nomade, quindi con difficoltà notevoli a portarsi dietro pesanti e ingombranti pentole, le quali dopo l’uso avevano la necessità di venire lavate, in un ambiente dove acqua se ne vedeva di rado. Il Corano infatti prescriveva che le pentole di terracotta venissero usate una volta sola e che poi venissero buttate, in quanto sarebbero diventate malsane. Ci si aspetterebbe perciò lo sviluppo di una particolare cultura gastronomica sullo spiedo, che invece non c’è stata. Lo spiedo rimane presidio e simbolo della semplicità gastronomica. Tutto sommato, questo non rappresenta un difetto, ma un pregio: le carni si presentano così, come le anime dei cristiani, nude al giudizio del loro signore. La loro bontà può essere giudicata unicamente dalle loro qualità intrinseche, e non da orpelli e accessori. Ne era convinto certamente anche Carlo Magno. La Vita Caroli Magni Imperatoris scritta da Eginardo ci racconta infatti che l’imperatore godeva dell’offerta quotidiana di uno spiedo di selvaggina da parte dei suoi cacciatori, con chissà quale grave scorno dei suoi raffinati cuochi di corte. L’imperatore aveva imposto, con il suo Capitulare de Villis, la proprietà della corona su tutti gli animali selvatici e anche sui pesci; per goderne, bisognava fare i conti con lui, con i suoi vassalli, valvassini, valvassori. Mal gliene colse, però, perché, mantenendo ostinatamente la sua dieta di spiedi anche contro il parere dei medici, si ammalò di una grave forma di gotta che si portò fino al suo bel sepolcro.

Dopo Apicio l’occidente non aveva prodotto più alcun libro di cucina. Forse potremmo meglio dire che non ne abbiamo conosciuti altri. Abbiamo però evidenti riscontri della sopravvivenza dei criteri alimentari dell’antica Grecia in due particolari documenti. Il primo è una lettera scritta dal medico greco Antimo dal titolo Aepistula Anthimi de Observatione Ciborum, dedicata a Teodorico, figlio di Clodoveo re dei Franchi, che viene datata al 511 circa. In questo documento salta fuori un nuovo termine: “Verbicina caro”, cioè carne cotta alla bacchetta. Antimo raccomanda che se si dovesse farne uso frequente è il caso di aggiungervi un sughetto – pare consigli con erbette “semplici”, cioè medicinali – e che la carne “delonge a foco coquat. Nam si proxima fuerit foco, ardet caro deforis et deintus deuenit cruda et potius nocet quam iuuet”; cioè che si cucini lontana dal fuoco, perché infatti se ci fosse vicina, la carne si brucerebbe di fuori e dentro rimarrebbe cruda e farebbe più male che bene. E non appena si vede asciugata, “salis cum uino mixtus,… cum pinna diffundatur”, bisogna spalmarla con una penna, di sale misto a vino. C’è anche un paragrafo sulla cottura dei piccioni allo spiedo: “De domesticis vero columbis pipionis ipsorum apti et boni et sanis et infirmis. Et cocti et assati maxime. Cum assant, de salemoria lene tangantur”; dice, in sostanza, che i piccioni del colombo domestico sono buoni e adatti sia ai sani che ai malati, specialmente se sono cotti arrostiti. Mentre si arrostiscono, si tocchino leggermente con una salamoia. La salamoia poteva anche essere addizionata con aromi di spezie o d’erbe ed è frequentemente nominata anche nei ricettari arabi dove viene chiamata con il nome di muri. Altra interessante raccomandazione, è quella di non salare durante la cottura le carni bovine o di bufalo, che si seccherebbero inutilmente. Anthimo parla anche della passionaccia che hanno i Franchi per il lardo, “dilicias Francorum”. Il loro re Teodorico ogni giorno ne mangia di crudo in buona quantità. Il medico scrive che fa bene, perché gli giova alla salute. Ritiene infatti che non ci sia medicina migliore. Al contrario, se fosse arrostito “ad hora quomodo bradonis”, in qualche luogo selvaggio, la parte grassa cadrebbe nel fuoco e il lardo rinsecchirebbe e a chi lo mangiasse risulterebbe non utile ma nocivo: “malus humoris generat et indigestionem facit”.

Altro raro testimone della “scienza in cucina” dell’Alto Medioevo è la badessa benedettina Hildegard von Bingen, vissuta attorno all’anno Mille. I suoi criteri collimano con le teorie terapeutiche di Galeno e infatti i suoi ammaestramenti sono rivolti a curare le imperfezioni dei cibi e degli individui. Così insegna che chi soffre di dolori allo stomaco, di infiammazioni o ernie agli intestini, mangiando spesso fegato di capra arrostito fino alla metà d’agosto trarrebbe sicuri benefici. Dice anche che “se una persona ha mangiato carne o pesce arrostito e sente dolori, mangi subito finocchio o i suoi semi, e si sentirà meglio”. Nei primi ricettari medioevali troveremo infatti che gli arrosti allo spiedo vanno spesso aromatizzati utilizzando i fiori o i semi di finocchio, associati a quelli di coriandolo pestato. Questa miscela si accorda particolarmente bene con il maiale e con i volatili. Dei tempi d’ Ildegarda è il famoso Arazzo di Bayeux, che ricorda l’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni (1066). Questo gigantesco ricamo lungo settanta metri ci mostra l’uso che questo popolo guerriero faceva dello spiedo. Appassionati di caccia con i rapaci, i condottieri normanni si portavano in navigazione i loro falconi per la cattura degli uccelli, che venivano cotti allo spiedo su appositi foconi sistemati sulla tolda della nave. Si tratta di spiedi corti, privi di manovella, e quindi più propriamente sono degli spiedini. Come si sa, i normanni penetrarono in Italia dal centro-sud e forse il consolidarsi dell’uso degli spiedini in queste aree non è estraneo alle influenze latine e normanne. La rusticità di questi arrosti non sollecitava certo le ambizioni di cuochi vanitosi, che si esibivano piuttosto molto volentieri su arrosti preparati al forno, meglio ancora su carni pasticciate con mirabolanti presentazioni, in torta, tortello, raviolo, in crosta, in pastello, in pasticcio, in potaggio. Queste elaborate preparazioni, che avevano la funzione di rappresentare anche la potenza, la magnificenza e la cultura dei signori, avevano la necessità di essere memorizzate o registrate nei libri di cucina, che sono pieni di ricette di questo tipo, ed è probabilmente per questo motivo che dello spiedo rare volte si fa menzione. Oltretutto, mentre gli arabi hanno il loro primo ricettario redatto nell’ VIII secolo dal principe Ibrahim ibn al- Mahdi, in Italia di ricettari non ne scrive ancora nessuno. Se in occidente si incomincia a scrivere di cucina lo si deve soprattutto al clima culturale creato dall’Imperatore Federico II, il quale, allevato in Sicilia sotto gli ammaestramenti di guerrieri normanni, religiosi cristiani e scienziati arabi, si avvide di quanto la scienza presso i popoli musulmani era avvantaggiata rispetto a quelli cristiani, per i quali la cura del corpo rappresentava un cedimento alla concupiscenza. La costante presenza di mostruose minacce nell’arte romanica ben riflettono la forte percezione del senso del peccato che dominava gli animi in quel periodo e che provocava il rigetto di tutto ciò che riguardava la soddisfazione dei sensi. La gola ricadeva ovviamente tra gli oggetti di condanna e probabilmente è anche per questo motivo che i nostri più antichi libri di cucina sono di autori rimasti anonimi. Federico aveva invece promosso su larga scala la traduzione di opere arabe, le quali sono in grado di aiutarci a colmare molte lacune nella conoscenza della storia della nostra alimentazione. Il Tacuinum Sanitatis, ad esempio, ad un’attenta lettura può spiegarci la scarsa attenzione che viene riservata allo spiedo. Le carni arrostite vi vengono indicate generalmente adatte ai giovani, a individui che fanno molto esercizio, come i cacciatori ed i guerrieri; altrimenti, per l’uso corrente, avrebbero potuto presentare alcune nocività, che andavano corrette con l’aiuto di altri ingredienti, da aggiungere alla carne. Per la cucina destinata a chi faceva vita di corte o di monastero, assai poco movimentata, si sviluppò così una cucina che tenesse conto di questo fatto. Per lo spiedo, preparato in plein air solo con carne messa davanti a un fuoco, si sviluppa in Italia una ricca gamma di intingoli chiamati Sapori; si tratta di salse calde in cui le carni arrostite andavano immerse brevemente, a fine cottura, per “insaporire”. Inoltre si sviluppa tutta una serie di soffritti, potacchi, torte e pasticci, appunto per aggiungere alle carni ingredienti di natura opposta, in modo da temperarne le caratteristiche. Così il Tacuinum dice che gli ovini vanno cotti con brodi astringenti, le capre e i capretti con un sugo dolcificato con miele, il maiale col vino, le carni vaccine e di cammello impiegando generosamente zenzero e pepe. Il primo vero ricettario del medioevo vede la luce nel ‘200 a Venezia, sulla scia degli interessi sollevati da Federico II, ad opera di Giambonino da Cremona. Egli, aiutato da un ebreo, traduce in latino alcune estrapolazioni dall’opera Minhaj al- bajan (Cammino dell’Esposizione), una specie di enciclopedia di un medico di Bagdad, Ibn- Jazla. Quest’opera è nota con il titolo Liber de Ferculis et Condimentis (Libro dei cibi e dei condimenti) ed è il documento che certifica il trapasso della cucina araba e della sua nomenclatura in quella italiana e europea. Quest’opera viene subito tradotta a Padova in tedesco e indirizza anche verso quell’area una nuova cultura gastronomica, di cui si troveranno abbondanti tracce in tutto il nostro Rinascimento. Per quanto riguarda le preparazioni degli arrosti descritti da Jazla, esse corrispondono a quelle già indicate dal Taqwim di Botlan. Sembrerebbe essere una derivazione dal Liber de Ferculis un testo veneto che ha qualche interessante novità per lo spiedo, che introduce con spettacolarità nella cucina di palazzo. Emilio Faccioli lo ha reso noto con il nome di Libro per cuoco di Anonimo veneziano del Trecento, ma credo vada invece ridatato e ricollocato territorialmente. Esso contiene infatti tre ricette dedicate all’ Imperatore e al re Manfredi, personaggi che non avevano certo incontrato simpatie presso i veneziani e non vedo come questi avrebbero apprezzato un ricettario che li celebrava. Si osserva anche che mai nelle ricette si trovano preparazioni di pesci d’acqua salata, ma d’acqua dolce. Più frequente ancora è la selvaggina. Un ricettario così sarebbe stato poco utile nelle mani d’un veneziano. Il linguaggio è però schiettamente veneto. Volendo scovarci qualche cosa che riguardi lo spiedo, la lettura delle centotrentacinque ricette non ne fornisce neppure una sola menzione diretta. Eppure c’è una fra le più strabilianti preparazioni che vede protagonista l’umilissimo pollo, volatile che al tempo veniva apprezzato sopra tutti gli altri. E’ solo la lettura di altri testi che ci consente di capire che si tratta di una preparazione allo spiedo. Leggiamone la ricetta, nel linguaggio di questo nostro antenato ghibellino. Polastri pini et boni:

“Se tu voy fare polastri pieni per XII persone, toy li polastri infilali e poy li pella ben mondi, e poy trazi fuora quello dentro; poy toy una libre de mandole ben monde e ben maxenate e colate; toy in fina vij caxe passi ben dolze e toy XII ova; toy petrosemolo e mente e altre herbe bone e lavale ben e pestale ben con lo caxo, e toy tre onze de specie non zafranate, e toy le herbe el caso e l’ova insiema e fa pastume e distempera con lo late de la mandola e fa ch’el sea el pastume a modo de quello delle fritelle; e poy toy li polastri ben lavati e ben mondi e impili in fra pelle e carne e dentro, e po’ li chossi bene che il pastume non esca e serà bono.”

Una volta rappreso il ripieno, il pollo veniva passato allo spiedo. Questa preparazione richiede evidentemente un’abilità particolare, per staccare la pelle dalla carne ed infilarvi la pastella. Questa operazione si può oggi fare usando un semplice sac à poche. Per staccare la pelle, il problema è meno semplice; un secondo manuale anonimo della stessa epoca ci dà istruzioni più dirette e di una praticità unica. Dice di preparare una cannula tagliando l’estremità di una grossa penna d’oca e di praticare, sul collo del pollo ancora vivo, un’incisione entro cui infilarla per poi soffiare con forza. Quando si dice “un povero pollo”! Certo, la faccenda costituiva una bella impresa anche per i garzoni di cucina. Ora si può fare il tutto più semplicemente, a pollo morto e con una cannula d’ aria compressa. La ricetta descritta dà un risultato straordinario ed è stata collaudata più volte dai ristoratori del Macaronicorum Collegium. Per la verità è un tipo di preparazione che ha resistito molto a lungo, nella storia della cucina. Viene citata in un terzo ricettario di questi tempi e la troviamo poi nel ‘500 fra le famose Doctrinae Cosinandi di Merlin Cocai. E’ una preparazione che – come assicura l’autore – è degna di figurare nella cucina di Giove. Nel febbraio del 1548 Messisbugo organizza per pochi gentiluomini una serata di Carnevale a casa sua e prepara i piccioni con questo sistema. Anche per Lucrezia d’Este, sempre a Ferrara, lo Scalco Giambattista Rossetti fa preparare dei paperi allo spiedo, imbottiti. Sono trovate che faranno poi la gioia della cucina barocca, con l’inserimento di prugnoli, cedrini e un sacco d’altre fantasiose trovate gastronomiche. L’ultima ricetta di tal genere data 1825 ed è di P. Cardelli, per un suo “Pollastro alle acciughe”, realizzato sempre allo spiedo.

Tornando al nostro Anonimo Veneto, egli riporta anche cinque ricette di salse per arrosti, che sembrerebbero fatti allo spiedo: “Rosto in cisame bono e perfetto optimo”. Così dice lui, con evidente modestia. Si tratta di una lonza di maiale arrostita e affettata e quindi insaporita con una salsa –bollita- di vino e aceto, datteri a dadetti, pinoli, uva sultanina, spezie e uova sode e crude. Si tenga sempre presente che queste salse devono risultare ben “temperate”, cioè né dolci né acide, salvo diverse indicazioni. Segue un “Savore rinforzato perfetto” (“questo si è bono savore con zaschuno rosto”); si fa con garofano, cinnamomo, cardamomo, zenzero, “noxelle pellate suso la cenera calda e un pocho de molena de pan e zucharo”. Queste cose vanno tutte tritate finissimamente e stemperate con un po’ d’aceto. C’è poi un “Savore a caponi”, che utilizza i fegatelli e il sugo della leccarda; un “Sapore de zenzevro biancho a caponi” a base di salvia e spinaci, piccanti di zenzero, e infine un “Savore aranzato” che si faceva mettendo una “tuma de naranze” tagliate in quarti e messe in infusione in un barile di vino ben tappato, addizionato di sale. Questo durava per tutto l’anno “et è perfetto bono optimo”.

In un altro autore anonimo del ‘300, di origine toscana, il cui testo venne pubblicato per la prima volta nell’ ‘800 da Francesco Zambrini, troviamo una serie di arrosti allo spiedo decisamente fuori dell’ordinario. Egli inizia la sua opera così: “Al nome di Dio. Amen. Incominciasi il Libro della Cocina”. Nel corso della sua esplorazione si incontra una fra le rare reminescenze della cucina di Apicio, sopravvissuta ai disastri della caduta della cultura latina. Si tratta del “Porcellum Hortolanum”, porcello disossato al forno, che viene invece qui sostituito da un capretto, da un castrato, oppure da un vitello, come nella ricetta che segue:

“Togli el vitello giovene scorticato, ovvero pelato: arrostiscilo e empilo, come tu vuoli: puoi ponervi papari, galline e capponi e l’empitura che sopra è detta, e qualunche altra bona: mettivi però molto lardo battuto, nel ventre; poi togli il grasso che ne cade quando s’arrostisce, e poni en peverata sol pane abbrusticato, e zaffarano; e bolla un poco da per sè la detta peverata; e dà a mangiare.”

Come si vede, neppure qui si nomina espressamente lo spiedo, ma si evince che debba essere utilizzata la “leccarda” per recuperare il sugo che cade. Con questo stesso sistema venne preparato uno spiedo spettacolare per far festa a Carlo V a Bologna, dove egli arrivava nel febbraio del 1530 per farsi incoronare imperatore; sulla piazza maggiore si fece allo spiedo non un vitello ma un enorme toro, ripieno di oche, polli, selvaggina. Nella ricetta trecentesca abbiamo incontrato anche la peverata, ed è una delle più antiche menzioni che incontriamo per questa che, nel trevigiano, è stata ritenuta fino a pochi anni fa la regina delle salse per arrosto. Ma chi la sa più fare? Il nostro autore dice di prepararla così, nel paragrafo De la peverada, in modo per la verità assai diverso da quello attuale.

“Togli pane abbrusticato, un poco di zaffarano che non colori, spezie e fegati triti e pesti nel mortaio, e distempera con aceto o vino e bruodo predetto, e fàllo dolce o acetoso, come tu vuoli. E tale peverata si può dare con carne domestica, selvatica e con pesce”.

Prediletta da Guillaume Tirel “dit Taillevent” è invece una salsa “cameline” che egli usa dappertutto, specie sugli arrosti. E’ una salsa color cammello, parente del “Brodeto camelino a caponi” del nostro Anonimo Veneto e forse non a caso, se dovessimo dar credito al sospetto che insinuò Valerio Rossitti dicendo che “Tagliavento” (Tiliaventus, franceseTaillevent) era chiamato in quel secolo il fiume Tagliamento e che Tirelli e Tirel erano comunissimi cognomi friulani. Il nostro cuoco inizia comunque in Francia, nel 1326, la sua carriera in cucina come sguattero e con la funzione di menarosto; è pieno di volontà arriva a diventare cuoco del re di Francia. Egli scrive le sue esperienze e il suo libro è il primo ricettario della cucina francese, Le Viander. Qui si evince, dalla frase “et mis en la broche”, che qualcuno ha provveduto a cambiare sesso all’antico e marziale “Espeut” dei Franconi, con un termine tutto femminile e completamente estraneo alle etimologie esaminate. Per contro è interessante segnalare un’opera piuttosto originale, scritta in un curioso latino – il famoso “kűchenlatein”, progenitore del macaronico – stilata dal monaco tedesco Johannes Bockenheym, cuoco di Papa Martino V. Nel suo Registrum Coquinae (1417) egli usa un termine che è una forma latino-longobarda molto interessante. Per la cottura degli uccelli scrive di metterli “ad spitonem”. Ecco quindi riemergere lo “Spiet” degli antenati, arma da guerra e da caccia che in Italia ha ancora fortuna, mentre in Francia l’antico termine guerriero è già abbandonato da tempo. In questo periodo abbiamo un’interessante testimonianza da un padovano che aveva iniziato a lavorare a Bassano come medico condotto, malpagato. Era Michele Savonarola, parente di quel frate Gerolamo in ossequio del quale certo i fiorentini avranno bruciato più d’un ricettario. Michele, per sua e nostra fortuna, trovò lavoro come medico presso la corte di Borso d’Este. Qui dedicò al suo signore un’opera che testimonia quanto ancora influissero le opere degli arabi sulla scienza italiana. Il suo Libreto de tutte le cosse che se manzano comunamente ci rivela questa verità ma aggiunge anche qualche utile e divertente osservazione, come quelle che riguardano le carni arrostite. Dopo aver parlato delle varie parti delle carni dei mammiferi, egli dice:

“Spaciato cossì e le complessione de le carne e le nature subzonzerò qui alchuni amaistramenti de le preparatione di quelle. Et prima è da saper che la carne arostita sopra le braxe molto più nutricha e più fortifica il corpo ma è più difficile da padire: e chiare volte se padisse tuta. E’ pasto da stomachi forti: non se vole alhora manzare altro: e bevere pocho….Ma la rostita nel spiedo è più difficile da padire: et è pasto da forte stomaco: ma se la si padisse dà più nutrimento che la alexata: et è più saporita: e ciò glie zova alquanto al padire suo. Ma la alexata prima e pò che se rostisse è molto più facile da padire. Si che quando tua Signoria usa il rostito fa sia prima bulito e da po ben rostito e ben cocto: e quella è carne che facilmente se padisse.”

Quest’immagine del famoso duca Borso d’Este che ha difficoltà “a padire” è decisamente inaspettata! Ricco di questa curiosa aneddotica gastronomica è anche il De honesta Voluptate et Valetudine di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che propone anch’egli, nel capitolo Assum, la sbollentatura delle carni più dure, mentre per i volatili e gli animali giovani dice di procedere senz’altro alla lavatura e all’inspiedatura. Dice di mettere all’interno lardo, erbe odorifere e pepe ben battuti, e d’iniziare la cottura “ad focum lento”. Solo quando la cottura si sta ultimando si asperga sale misto a pangrattato, si ravvivi il fuoco e si giri lo spiedo “volubiliore manu”, con mano più volubile! Le stesse indicazioni si hanno dal suo amico Martino da Como, cuoco del Cardinale Trevisan, Patriarca d’Aquileia, e da Martino de’ Rossi, il cui ricettario è parente stretto di quello dell’altro Martino. In tutti e tre le indicazioni specifiche per lo spiedo sono ancora piuttosto scarse, ma concordano nel sottolineare la necessità che la velocità dello spiedo sia proporzionale all’intensità del fuoco. E’ un caso che nel loro tempo si cominci a pensare alle macchine da spiedo? Per fare al meglio queste operazioni qualcuno aveva infatti tentato di utilizzare la forza ascensionale dell’aria calda, sfruttando il tiraggio del camino. Poco fuoco, rotazione lenta; molto fuoco rotazione rapida. E questo senza il bisogno di scalmanarsi con i ragazzini addetti a girare la manovella dello spiedo. Fra coloro che si arrovellarono il cervello attorno a questo problema abbiamo nientemeno che Leonardo (1452-1519). La sua fama occultò tutti gli altri ingegnosi artigiani che si erano dedicati a queste soluzioni che portarono alla costruzione degli spiedi detti “a turbina”. Per questi impianti era indispensabile disporre di camini a sezione circolare, e talvolta anche di cappe circolari, come già si vede nel disegno di Leonardo. Nell’ Opera di Bartolomeo Scappi, un po’ più tarda (1570), si ritrova questa stessa soluzione, anche se in modo meno razionale, per la rigidità dei macchinari proposti. Come si può constatare dall’illustrazione contenuta nella stessa, la ventola, sorretta da un’asta, è munita all’estremità opposta da un tamburo sezionato. In queste sezioni veniva inserita la dentatura della ruota collegata allo spiedo. E’ un ingranaggio che ricorda quello dei mulini ad acqua e la macchina viene infatti chiamata “a mulinello” e ricorda i primi esempi di questo tipo di applicazioni. Leonardo invece collega la macchina allo spiedo mediante una cinghia di trasmissione tesa tra due pulegge. Soluzione molto più adeguata alla gestione di uno spiedo, i cui pesi e ritmi non sono sempre regolari. Questa sembra essere, in effetti, la vera innovazione di Leonardo, poiché prima di lui non conosciamo casi di tale applicazione, che peraltro è visibile anche in un’ incisione di fine ‘500. Qui, oltre alla trasmissione a cinghia, si vede un’altra applicazione che aveva colpito l’attenzione del genio di Vinci. Il girarrosto gira grazie a un meccanismo che sfrutta la forza di gravità, tramite un peso legato all’estremità di una corda che aziona un sistema di carrucole collegate allo spiedo con il sistema a pulegge. Una macchina d’orologio assicura la regolarità del moto. Anche il disegno di questa macchina viene raccolto nel Codice Atlantico. Stranamente, però, Leonardo non suggerisce in questo caso l’uso della puleggia, ma indica il collegamento diretto degli spiedi agli ingranaggi. Tutti i ristoranti dell’ area pedemontana vicentina usavano -e alcuni ancora usano- il sistema delle pulegge, che consente di far girare, con un’unica macchina, anche cinque, sei spiedi carichi d’uccelli e “torresani”. Questo sistema è di gran lunga il più pratico, il più versatile e il più veloce al momento del servizio. Bartolomeo Scappi presenta, nella sua Opera, anche un altro accorgimento meccanico, che utilizza sostanzialmente una macchina d’orologio a molla, caricata da una manovella azionante un albero a tronco di cono attorno a cui viene avvolta una funicella che carica la molla contenuta in un tamburo. Gli spiedi, anche qui, vengono collegati direttamente agli ingranaggi. Questa macchina ebbe una lunga fortuna e con il perfezionarsi della fabbricazione degli acciai per le molle si arrivò a farne di piccole, ma eleganti ed efficaci, e dotate anche di campanello che avvertiva quando la carica si stava esaurendo. Anche queste macchinette sono ancora in servizio presso gli appassionati. Il ‘500 è quindi il secolo in cui lo spiedo assume in pieno la sua dignità di protagonista in cucina, anche se Cristoforo Messi (o Messys), detto Sbugo, è ancora tra quelli che ne parlano e che lo citano pochissimo, sia nel suo ricettario, sia nelle liste delle vivande contenute nel suo Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale (Ferrara, 1549). Mentre lo Scappi, con intenti didattici molto scrupolosi, fornisce, oltre ai disegni citati, anche tutte le immagini e le descrizioni di tutte le suppellettili necessarie e una doviziosa serie di ricettazioni che meriterebbero di essere raccolte. Il benedettino Teofilo Folengo, singolare figura di monaco noto negli ambienti letterari con lo pseudonimo di Merlin Cocai, tesse in questo stesso periodo l’apoteosi letteraria dello spiedo, con frequenti citazioni poetiche, ma anche per stigmatizzare la deviazione di certo mondo religioso dalle regole della sobrietà indicate dai Padri Fondatori. Il suo fra Baldracco rappresenta bene questa situazione. Vale la pena di leggere un Epigramma che lo riguarda (De Baldracco), anche perché veniamo a sapere che l’oca è buona con una ricca speziatura.

“Baldraccus numquam nisi de mangiamine pensat; quum mangiat, satiam nescit habere gulam.
Scit dare praeceptum galantiter omne coquinae, nanque lecatoria semper in arte studet.
Sic ait: – In speto rostirier ocha tenetur, plenaque sint spetiis interiora bonis.
Quae dum arrostitur, quae dum gyratur atornum, non cesset lardi serva butare brodum.
Haec est materies atque ars et forma coquendi, haec venit a nostris regula docta scholis.”

Baldracco non pensa se non al mangiare; quando mangia, non si accorge mai di avere la gola sazia. Sa dare gentilmente disposizioni a tutta la cucina e infatti è sempre immerso negli studi in arte lecatoria. Così dice: – Quando dovrai arrostire l’oca allo spiedo, siano piene le interiora di buone spezie. E mentre si arrostisce, mentre gira attorno lo spiedo, mai si stanchi la serva di metterci sopra il sugo del lardo. Questa è la materia, nonché l’arte e la forma del cuocere, questo viene fissato dalla dotta regola della nostra scuola”. Molto più sobriamente, in un luogo del suo Baldus, Merlin Cocai fa questa considerazione:

“Nunc tempus studiare libros, nunc volgere spetum, nunc lunum et laltrum tractare valemus”

« Ora è il tempo di studiare i libri, ora di volgere lo spiedo, ora siamo di capaci trattare una cosa e anche l’altra ». Metter insieme libri e spiedo è cosa bella e buona e questo corrisponde al pensiero e alle esortazioni del massimo tra i filosofi, Aristotele. Abbiamo già appreso parecchie cose, leggendo la storia dello spiedo. Potremmo anche imparare che allo spiedo non si mettono solo i polli; Martino da Como, Martino de’ Rossi, il Platina insegnavano come fare per cucinare allo spiedo persino le uova, infilandole senza danno sulla punta arroventata; oppure impareremmo a fare il “formaglio di Bria” allo spiedo, fissandolo fra due mezze canne fesse, e con lo stesso accorgimento fissarci anche i pesci. Oppure a utilizzare la carta per ottenere arrosti morbidissimi anche da carni di animali vecchiotti e coriacei, magari scarsi di frollatura. E’ una tecnica che inizia a presentarsi già nel ‘500. Impareremmo anche come si faceva ad arrostire pavoni, otarde, fagiani lasciando loro le penne della testa, del collo e della coda senza che andassero danneggiate durante la cottura, per poterli poi portare in sala con il trionfo dello splendore delle loro piume colorate. E’ in questo secolo che iniziamo a riscontrare una trovata splendida: il pesce allo spiedo! Salmoni, trote e lamprede giganti, storioni, lucci, tonno e persino il dentice. Non si può immaginare quale sia la differenza tra il pesce alla griglia e quello allo spiedo, finché non si è provata. Peccato che questo modo di cucinare pesce sia andato perduto. Fra le cose da recuperare c’è l’uso delle foglie di vite o di fico per bardare le quaglie e della reticella di maiale per tenere assieme carni di struttura secca e scompigliata. Ascoltiamo ancora Merlin Cocai per imparare a fare un fegato di maiale indimenticabile. E’ la sua Doctrina Cosinandi Quinta, un piatto citatissimo nel Rinascimento, e riportato anche da Scappi:

“Alter arostitum fegatum cum radicella
de speto ducit simul ac in frusta minuzzat
inque lavezettum cum zuccar, acquaque rosarum, atque naranzorum musto, speciisque guacettat.”

Intento a quest’operazione è un garzone della Cucina di Giove: dopo aver arrostito parzialmente un fegato avvolto nella reticella, lo taglia a fettine e lo insaporisce appena in un guazzetto di succo d’arancia, addolcito con zucchero al velo (non vanigliato, ovviamente) e aromatizzato con poca acqua di rose, pepe, garofano e zenzero. Altre tecniche particolari che apprendiamonel ‘500: la panatura ottenuta alternando sull’arrosto – mentre gira- strati di pangrattato a pennelate di uovo sbattuto; ancora più raffinata la presentazione che lo Scappi chiama “pasticcio in spedo”, per la quale occorre mettere un fegato allo spiedo dopo averlo impillottato con il lardo. A metà cottura va fatto girare a tratti, pennellandolo con rosso d’uovo sbattuto, mescolato a farina, acqua di rose, vino bianco, zucchero, cannella, zafferano e sale, realizzando in questo modo una specie di pastella per frittura. Ottenuto in questo modo un rivestimento spesso e omogeneo, lo spiedo va incartato e si porta quindi a termine di cottura. Come si vede, non vengono posti limiti alla fantasia dell’ Arte coquinaria. Occorre dire che, dal ‘500 in poi, lo spiedo viene onorato anche dai grandi cuochi, come Bartolomeo Stefani, veneto di formazione professionale, in quanto allievo di Giulio Cesare Tirelli, cuoco della Repubblica. Stefani, diventato cuoco dei Gonzaga, scrisse L’Arte di ben cucinar, et instruire i men periti in questa lodevole professione. Nel suo lavoro, pubblicato a Mantova nel 1662, dà molte indicazioni per la selvaggina allo spiedo. C’è, fra queste, una rarissima citazione del camoscio, di cui però dice di stimare solo le corna perché adatte a togliere lo sporco gli zoccoli dei cavalli. Lo Stefani insiste a sottolineare come la qualità delle carni sia in strettissima relazione con il territorio e con l’alimentazione che questo è in grado di fornire. Magari si fosse sempre tenuto conto di questo principio! Dal suo libro riporto la procedura per una salsa che ha avuto una lunga storia. Viene apprezzata dal ‘500 al ‘700; poi scompare. Si tratta della “Salsa Reale”, che viene utilizzata sia per spiedi di carne, sia di pesce.

“Pigliarai un pignattino ben vitriato, un’oncia di stecchi di canella, meza di garofani, oncie tre di zuccaro, un bicchiere, e mezo d’aceto, coprendo bene il pignatino con carta, e coperchio, acciò sia ben stuffato, facendolo bollire a fuoco lento, consumata che sarà per metà, sarà a perfetione: questa salsa la potrai servire con tutte le sorti d’arosto, tanto domestici, quanto selvatici.”

Nel ‘700 però lo spiedo sembra avere una fase di declino. Da maestra, la cucina italiana diventa ammaestrata, dalla dilagante moda francese. I cuochi d’oltralpe prediligono le preparazioni in casseruola o al forno, come dimostra l’esplorazione di Il cuoco francese di François Pierre de la Varenne, pubblicato a Parigi nel 1651. Fra il ‘700 e l’ ‘800 quest’opera venne tradotta in italiano e ristampata almeno sei volte, tre delle quali dai Remondini di Bassano. Fortissimo era quindi l’interesse verso questo ricettario, dove lo spiedo non viene quasi neppure preso in considerazione. L’ultima di queste edizioni porta la data del 1815, tempo in cui anche le vecchie fornelle a muro cominciano a svilupparsi verso le grandi “cucine economiche” delle nostre nonne. L’uso del camino, che richiede grandi quantità di legna, viene progressivamente abbandonato. Si arriverà, più tardi, alla massima razionalizzazione della procedura con la costruzione di strani marchingegni per le famiglie e per i ristoratori più snob. Quello che ha avuto la vita più longeva sembra essere stato il “Rostiforno” costruito proprio a Treviso nei primi del ‘900 dalla Firt – Brevetti Mondiali (Fabbrica Italiana Rostiforni Treviso). Questi spiedi “Modello lusso, tipo famiglia”, funzionanti a carbone di legna, di cui la ditta assicurava di fare un ‘ “esportazione mondiale”, erano macchine compatte, trasportabili ovunque e con lo spiedo racchiuso in un tamburo di rame con decori d’ottone. Tali impianti sono ancor in uso e prediletti nel Bresciano, dove vengono appunto chiamati “Spiedi a tamburo”. Sono comodi ed economici e mantengono gli arrosti più morbidi, ma tolgono la soddisfazione di vivere e gustare appieno il cerimoniale della preparazione del cibo. Lo spiedo tradizionale continua ad avere invece uno stuolo di fans che non rinunciano né alle golosità che consente di preparare, nè ai miti atavici che riesce ad evocare, anche grazie al fascino del fuoco. Una suggestione che, nonostante la fatica, aveva colpito anche il padovano Ippolito Nievo, condannato da ragazzino al ruolo di “menarosto”, nelle giornate in cui non veniva utilizzata la grande macchina da spiedo installata nel castello di Fratta. Leggiamo qualche passo, dalle Confessioni d’un italiano (1857):

La cuoca infilava le pollastre nello spiedo, indi passava la punta di questo in un traforo degli alari e ne affidava a me il manico perché lo girassi con buon metodo e con isocrona costanza fino alla perfetta doratura delle vittime. I figli d’Adamo, forse Adamo stesso aveva fatto così; io, come figlio d’Adamo, non aveva alcun diritto di lamentarmi per questa incombenza che m’era affidata… – Qualche volta mi toccò girare qualche spiedata di uccelletti i quali nel volgersi a gambe in su pencolavano ad ogni giro fin quasi sulle bragie, colle loro testoline scorticate e sanguinose.- La mia testa pencolava in cadenza al pencolar delle loro; e credo che vorrei essere stato uno di quei fringuelli per trar vendetta del mio tormento attraversandomi nella gola di chi avrebbe dovuto mangiarmi.

E insomma, c’erano sempre i ragazzini a penare attorno al fuoco, come in un altro ritrattino di queste situazioni – quando è ora di preparare l’ impareggiabile polenta onta – che ho trovato sul retro di un album di acquarelli di viaggio del pittore bassanese Antonio Marinoni (1796 c.-1871). Si tratta di un ditirambo che gli venne attribuito, ma che aveva invece sentito recitare da qualcuno nel corso di qualche convito. Il vero autore è un friulano, il dott. Ludovico Pastò:

“…Oe, Tonin, fala in fete sutilete,
e impienissi la licarda…
Varda, varda,
che quel stizzo fa del fumo!
Sì, per dia, che me consumo
a insegnarghe a ste marmote!…
Quele quagie no xe cote, quela bampa no laora… Via…da brava, siora Dora,
Sul fogher no vogio intrighi; Onzè ben quei becafighi; tirè zo quele brisiole…
Deme in qua le cazzariole… Mo che odori che consola! Portè in tola, portè in tola”.

Lavoro e festa, quindi, attorno allo spiedo. Andrea Zanzotto ricorda in “Colloqui con Nino” (2005), l’amico contadino “Duca della Rosada di Rolle”, e i “giulivi banchetti” che Nino preparava per sé e per gli amici della sua “corte”: Zanzotto, Giovanni Comisso ed altri. Gli amici dicono che in tale occasione, per onorare lo spiedo, egli si mettesse il vestito scuro da festa e la cravatta. Comisso venne coinvolto con Bepo Maffioli e Gian Antonio Cibotto in una bella impresa letteraria: egli scrisse il capitolo Veneto nella preziosa raccolta Lo stivale allo spiedo, edito da Nanni Canesi. Comisso ebbe modo di scrivere una bellissima pagina che sembra concepita proprio per questo libro: “Placida e limpida abita questa gente nei suoi paesi ad alternare i lavori assidui alle feste. Sono queste feste stagionali una sintesi della vita, entusiaste avide di attesa e di conquista al dischiudersi delle foglie, piene, solenni e generose al divampare del sole estivo, dolci e malinconiche al declinare dei raccolti e al cadere delle foglie. “

E vi sono sempre ad accompagnare queste moltitudini anelanti alla vita, uomini o donne esperti della cucina, come vivandieri di un esercito, che accanto a quadrati focolari con vivo fuoco e brace saggiamente distribuita, vigilano grandi spiedate di capretto, di polli e di uccelli, dosando il sale, regolando le dorature, ribattezzando le carni col loro sugo raccolto.La cucina è migliore proprio là dov’è più prossima alle risorse del posto…

Danilo Gasparini